La negligente carenza informativa da parte del medico curante è fonte di responsabilità civile.
Aggiornamento: 20 dic 2023

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III, ORD., 27.06.2023, N. 18327
Con l'ordinanza in commento la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sul diritto della gestante al risarcimento dal danno derivante dalla privazione della facoltà di esercitare una consapevole scelta se effettuare o no un aborto terapeutico.
Prima di entrare nel merito è bene una precisazione: l'aborto terapeutico è l'aborto effettuato tramite interventi medici al fine di preservare la salute della madre o di evitare lo sviluppo di un feto affetto da gravi patologie o malformazioni. L'aborto in questione rappresenta, dunque, un'interruzione volontaria di gravidanza che può essere effettuata anche una volta trascorsi i 90 giorni di gestazione previsti dalla normativa vigente (legge 194/1978) a patto che sussistano gravi condizioni mediche che ne giustifichino l'esecuzione.
Ciò premesso veniamo al caso di specie.
Una coppia citava in giudizio la Asl di Livorno, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, subiti in conseguenza della non tempestiva diagnosi della sindrome di Down (di cui sarebbe poi risultato affetto il nascituro) a causa dall'errata esecuzione di un test di screening prenatale da parte del medico in servizio.
In particolare, gli attori allegavano:
di aver eseguito due specifici esami al fine di accertare l'esistenza o meno della sindrome di Down (la traslucenza nucale e l'esame del sangue mirato) in data 23 e 24 aprile 2009;
i risultati, successivamente, erano stati approfonditi mediante un esame statistico da parte del medico convenuto;
quest'ultimo, nell'inserire i relativi dati nel sistema informatico, in data 9 maggio 2009, aveva erroneamente indicato, come data di esecuzione della traslucenza nucale quella del 23 maggio 2009, in luogo della data effettiva del 23 aprile 2009;
a seguito di ciò, la macchina aveva elaborato un risultato falsato rispetto alla realtà, indicando l'esistenza di una probabilità contenuta di presenza della sindrome di Down, tenuto conto dell'età della gestante;
sostenevano, dunque, gli attori che, se fosse stata inserita la data corretta, la probabilità di anomalie genetiche calcolata dal sistema sarebbe stata molto più elevata, ed essi, ove ne fossero stati resi consapevoli, avrebbero senz'altro interrotto la gravidanza;
chiedevano, quindi, il risarcimento danni che quantificavano in complessivi € 7.235.000,00.
Il Tribunale adito e, successivamente, anche la Corte d'Appello, tuttavia, rigettavano la domanda degli attori, ritenendo che non avessero dato la prova che, seppure il medico avesse portato a termine senza errori il test, inserendo i dati corretti, sarebbe stato possibile interrompere la gravidanza.
La Suprema Corte, in soccorso alla giovane coppia, invece, a seguito di apposito ricorso, ha accolto la richiesta di questi ultimi statuendo che «[l]a valutazione della potenziale grave pericolosità, come condizione legittimante l'interruzione di gravidanza e presupposto per il sorgere del diritto al risarcimento del danno, deve essere eseguita con valutazione prognostica ex ante perchè è mirata sulla gravità del pericolo cui è esposta la madre a causa dell'inaspettata notizia della infermità dalla quale risulta affetto il feto, e non può essere, invece, parametrata, ex post, alla capacità del soggetto di reagire e di affrontare le difficoltà aprendosi all'accoglienza del bambino ormai nato: sostituire la valutazione ex ante con la valutazione ex post equivale a negare il diritto alla legittima interruzione della gravidanza (e, ove ciò sia reso impossibile dalla mancanza di adeguate informazioni, al risarcimento dei danni) in capo ai soggetti che dimostrano maggiore resilienza, maggiore capacità di affrontare le situazioni in cui involontariamente si vengono a trovare, introducendo una di Spa rità di trattamento che non ha fondamento legale».
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